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venerdì 2 settembre 2022

Gigino di Giovanni Guareschi

Gigino si sentì addosso gli occhi della madre e delle due sorelle, ma non alzò la testa dal piatto. La cameriera tornò in cucina e la signora ripeté: «E allora?». «Ho parlato con tutti i professori e col preside» spiegò il padre. «Hanno detto che va ancora peggio dell’anno scorso.» Gigino aveva quattordici anni ed era in seconda media: ripetente della seconda media, dopo aver fatto per due anni la prima.

« Mascalzone!» disse la signora rivolta verso Gigino. «Lezioni private di latino, lezioni di matematica, soldi, sacrifici!» A Gigino vennero le lacrime agli occhi. La signora si protese sopra la tavola, agguantò Gigino per i capelli e gli sollevò il viso. «Mascalzone!» ripetè. Si sentì ciabattare la cameriera e la signora si ricompose. Quando la ragazza se ne fu andata, la signora si rivolse al marito: «Ma cosa fa? Che mascalzonate combina?». «Niente» spiegò il padre allargando le braccia. «Come condotta è a posto e nessuno si lamenta.

Quando lo interrogano non risponde, quando fa i compiti in classe non riesce a scrivere una parola che non sia una bestialità. I professori non me lo hanno detto ma mi hanno fatto capire che per loro è un cretino.» «Non è un cretino!» gridò la signora. «È un vigliacco! Ma è ora di finirla: bisogna trovare il modo di farlo studiare. Sono pronta a sopportare tutti i sacrifici dell’universo, ma deve andare in collegio.» Le due sorelle guardarono Gigino con disprezzo. «Per causa sua poi ne dobbiamo soffrire noi!» esclamò la maggiore che era già all’università. «Dobbiamo soffrirne noi che non ne abbiamo nessuna colpa» aggiunse l’altra che era una delle brave del liceo. «Ne soffriamo tutti» disse il padre. «Quando in una famiglia c’è una disgrazia pesa su tutti. A ogni modo, a costo di scannarmi, lo metterò in collegio.» Gigino era un ragazzo timido, di quelli che parlano poco: ma quella volta la disperazione lo prese e parlò. «Non voglio più studiare!» disse. «Voglio fare il meccanico!»

La signora scattò in piedi e diede uno schiaffo a Gigino. «Voglio fare il meccanico!» ripetè Gigino. Il padre intervenne: «Calmati, Maria. Non bisogna far scenate. Lascialo dire: andrà in collegio e là troveranno il modo di farlo studiare». «Non voglio più studiare!» insistette Gigino. «Voglio fare il meccanico.» «Vattene nella tua stanza!» disse il padre. Gigino se ne andò e il consesso riprese la discussione.«È più che mai necessario chiuderlo in collegio» affermò la signora. «Oramai si ribella e qui succederebbero scenate d’inferno.» «Provvedere subito» assicurò il padre. «Oggi sono riuscito a mantenermi calmo, ma in seguito non so se ci riuscirei più.» «È un ragazzo che ci farà rodere il fegato a tutti» disse la signora. «D’altra parte non possiamo permettere che, a forza di ripetere le classi, diventi la favola della città.

Quando si ha un decoro bisogna mantenerlo a ogni costo.» «Certamente» approvò il padre. «Il figlio del nostro usciere che ha fatto la prima media con Gigino è già due classi più avanti di lui.» La signora ebbe una crisi di pianto e le due ragazze guardarono con aria di rimprovero il padre. Non c’era nessuna necessità, perbacco, di dire una cosa simile. Ma il padre aveva da tanto quella cosa lì, sullo stomaco, e doveva ben dirla.

Gigino arrivò con la corriera delle sei del pomeriggio. Gironzolò per il paese e subito venne sera. Incominciò a piovigginare e il ragazzo si riparò sotto il porticato in fondo alla piazzetta. Guardò le vetrine delle tre o quattro bottegucce. Aveva ancora in tasca duecento lire e avrebbe voluto entrare nel caffè per bere una tazza di latte, ma non trovava il coraggio di farlo. Traversò la piazza e andò a rifugiarsi nella chiesa. Si mise nell’angolo più nascosto e, verso le dieci, quando don Camillo andò a dar la buona notte al Cristo dell’altar maggiore, trovò Gigino addormentato su una panca.

Il ragazzo, svegliato d’improvviso dall’urlaccio di don Camillo, vedendosi davanti quell’omaccio nero che pareva ancora più colossale nella penombra della chiesa, sbarrò gli occhi. «Cosa fai qui?» domandò don Camillo.

«Scusi signore» balbettò il ragazzo. «Mi sono addormentato senza volere.» «Ma che signore!» borbottò don Camillo. «Non vedi che sono un prete?» «Scusi, reverendo» mormorò il ragazzo «vado via subito.»

Don Camillo vide quei due grandi occhi pieni di lacrime e agguantò per una spalla Gigino che già s’era avviato verso la porta. «E dove vai?» domandò. «Non lo so» rispose Gigino. Don Camillo cavò fuori dall’ombra il ragazzo, lo spinse davanti all’altar maggiore dove c’era luce, e lo squadrò attentamente. «Oh, un signorino» disse alla fine. «Vieni dalla città?» «Sì.» «Vieni dalla città e non sai dove vai. Hai del danaro?» «Sì» rispose il ragazzo mostrando i due biglietti da cento lire. Don Camillo si avviò verso la porta rimorchiandosi Gigino.

Quando furono arrivati in canonica, don Camillo prese tabarro e cappello: «Seguimi» disse brusco. «Andiamo a sentire cosa pensa di questa storia il maresciallo.» Gigino lo guardò sbalordito. «Non ho fatto niente» balbettò. «E allora perché sei qui?» urlò don Camillo. Il ragazzo abbassò la testa. «Sono scappato da casa» spiegò. «Scappato. E per qual ragione?» «Vogliono per forza farmi studiare, ma io non capisco niente. Io voglio fare il meccanico.»

«Il meccanico?» «Sì, signore. Tanti fanno il meccanico e sono contenti. Perché non posso essere contento anch’io?»

Don Camillo riappese all’attaccapanni il tabarro. La tavola era ancora apparecchiata. Don Camillo frugò nella credenza e trovò un po’ di formaggio e un pezzettino di carne. Poi si mise a sedere e stette a guardarsi come uno spettacolo Gigino che mangiava secondo tutte le regole della buona creanza. «Il meccanico vuoi fare?» domandò a un certo punto. «Sì, signore.» Don Camillo si mise a ridere e il ragazzo arrossì. Il letto dell’ospite era sempre pronto, al primo piano, e così non fu difficile sistemare il ragazzo. Prima di lasciarlo solo nella stanza, don Camillo gli buttò sul letto il suo tabarro. «Qui non ci sono i termosifoni» spiegò. «Qui fa freddo sul serio.» Prima di addormentarsi, don Camillo si rigirò nel letto parecchio. «Il meccanico» borbottava. «Vuole fare il meccanico!»

La mattina don Camillo si alzò come il solito che era ancor buio, per la prima Messa: ma stavolta si studiò di non fare baccano per non svegliare il signorino che dormiva nella stanzetta vicina. E, prima di scendere, aperse cautamente la porta per controllare se tutto funzionava bene nella camera dell’ospite. E trovò il letto rifatto alla perfezione e Gigino seduto nella sedia ai piedi del letto. La cosa lo lasciò sbalordito. «Perché non dormi, tu?» disse di malumore.

« Ho già dormito.» Quella mattina pioveva e faceva un freddo infame e così l’unico ad ascoltare la Messa di don Camillo era Gigino. E don Camillo fece anche il suo bravo sermoncino e parlò dei doveri dei figli, e del rispetto che i figli debbono avere per la volontà dei genitori, e fu uno dei discorsi nei quali mise maggiore impegno. E il povero Gigino, solo e sperduto nella chiesa semibuia e deserta dove la voce tonante del colossale sacerdote rimbombava e ingigantiva, sentendosi dire «voi ragazzi», aveva l’idea di essere responsabile, davanti a Dio, dei peccati di tutti i ragazzi dell’universo. « Nome, cognome, paternità, luogo e data di nascita, luogo di residenza e numero del telefono!» ordinò don Camillo a Gigino quando ebbero consumata la colazione. Il ragazzo lo guardò impaurito poi disse tutto quello che doveva dire e don Camillo andò al posto pubblico a telefonare. Gli rispose la signora. «Vostro figlio è mio ospite. Non datevi pensiero perché qui è al sicuro da ogni pericolo» spiegò don Camillo dopo essersi qualificato. Poi sopraggiunse il padre e don Camillo rassicurò anche lui e gli diede un consiglio: il ragazzo era un po’ scosso.

Si rendeva conto del male che aveva fatto ed era pentito sinceramente. Lo lasciassero tranquillo qualche giorno da lui che avrebbe fatto in modo di convincerlo a mettersi di buona volontà a studiare come intendevano i genitori. Avrebbero, a loro completa sicurezza, ricevuto dal vescovado conferma di quanto appreso attraverso il telefono. Telegrafassero se permettevano che il ragazzo rimanesse qualche giorno ospite di don Camillo. Il telegramma arrivò nel primo pomeriggio.«I tuoi genitori ti hanno concesso di restare con me un po’ di tempo» disse allora don Camillo a Gigino.

E Gigino finalmente sorrise. Don Camillo si mise il tabarro e uscì con Gigino. Arrivarono fino all’estremità del paese e si fermarono davanti all’officina di Peppone. Peppone stava smontando pezzo per pezzo un motore d’automobile e, quando vide don Camillo, buttò per terra la chiave inglese e si mise i pugni sui fianchi. «Qui non si parla di politica» disse cupo Peppone «qui si lavora.» «Bene» rispose don Camillo accendendo il suo mezzo toscano. Poi spinse avanti Gigino. «Che roba è?» domandò Peppone. «Questo è un borghese che è scappato di casa perché lo vogliono far studiare e invece lui vuol fare il meccanico. Ti interessa?» Peppone guardò il ragazzo esile ed elegante poi sghignazzò. «Tu vuoi fare il meccanico?»

« Sì, signore» rispose Gigino. «Qui non ci sono signori!» urlò Peppone.

E gli occhi di Gigino si riempirono di lacrime. «Sì, capo» sussurrò Gigino. Peppone grugnì, si volse, raccolse la chiave inglese e riprese a lavorare accanto al motore. Gigino guardò don Camillo e don Camillo gli fece cenno di sì. Allora Gigino si tolse il cappottino e, sotto, aveva la sua brava tuta di tela blu. Peppone buttò via la chiave inglese e cominciò a lavorare con le chiavi fisse. Svitò quattro dadi del sedici poi gli serviva la chiave del quattordici. È se la trovò davanti al naso. Tremava, la chiave del quattordici, perché Gigino aveva una paura maledetta, ma era una chiave del quattordici e Peppone la agguantò con malgarbo. Don Camillo allora si avviò; quando fu sulla porta si rivolse a Gigino: «Giovanotto» disse «qui si lavora, non si fa della politica. Se senti quel disgraziato lì parlare di politica, lascia tutto e torna a casa». Peppone levò gli occhi e guardò cupo don Camillo.

Il padre arrivò dopo una decina di giorni e don Camillo lo ricevette con tutti i riguardi. «Ha messo la testa a posto?» s’informò il padre. «È un bravo ragazzo» rispose don Camillo.«Dov’è adesso?» «Sta studiando» rispose don Camillo. «Lo andiamo a trovare.» Quando giunsero all’officina di Peppone don Camillo si fermò e aperse la porta. Gigino stava lavorando alla morsa con la lima. Venne avanti Peppone e il padre di Gigino lo guardò a bocca aperta. «È il padre del ragazzo» spiegò don Camillo. «Ah!» disse Peppone con aria poco benevola squadrando diffidente il signore pieno di dignità. «Fa bene?» balbettò il signore. «È nato per fare il meccanico» rispose Peppone. «Fra un anno non saprò più cosa insegnargli e bisognerà mandarlo in città a lavorare nella meccanica di alta precisione.» Don Camillo e il padre di Gigino tornarono in silenzio alla canonica. «Cosa dico a mia moglie?» domandò sgomento il padre di Gigino.

Don Camillo lo guardò. «Dica la verità: lei è contento di aver preso una laurea e di essere finito caporeparto in un ufficio statale?» « Il mio sogno era di diventare specialista di motori a scoppio» sospirò il padre di Gigino. Don Camillo allargò le braccia: «Dica questo a sua moglie!». Il padre di Gigino sorrise tristemente. «Preghi per me, reverendo. Verrò tutte le settimane a trovare Gigino. Se occorre qualcosa mi scriva. Non a casa però: mi scriva in ufficio.» Poi si fece raccontare come era andata la faccenda della presentazione a Peppone e, quando seppe il particolare della chiave del quattordici che era proprio del quattordici e ci voleva quella del quattordici, gli brillavano gli occhi. «Mio padre» esclamò «era il primo tornitore della città. Buon sangue non mente!»


#scuola #educazione #lavoro

Ho sentito che c’è chi propone di innalzare l’età dell’obbligo scolastico a 18 anni e non ho potuto fare a meno di pensare ai miei anni scolastici, ai miei desideri ..... 

Ricordo i volti di alcuni compagni di classe. Stare seduti in un banco era un “supplizio” e non vedevano l’ora di conseguire il diploma di 3a Media per entrare nel mondo del lavoro, nell'officina del padre. All'epoca c'erano ancora i tre anni di Avviamento Professionale.

Poi, (se non sbaglio nel 2006) l’obbligo scolastico è stato innalzato all’età di 16 anni. 

Sicuramente al giorno d'oggi abbiamo bisogno di lavoratori laureati preparati ma è più che scontato affermare quanto siano indispensabili e preziosi, in vari settori, buoni artigiani preparati e motivati!


Buona giornata a tutti :-)

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giovedì 23 settembre 2021

La favoletta di Don Camillo - Giovannino Guareschi

Don Camillo raccontò questa favoletta: «Un feroce lupo pieno di fame girava per la campagna e arrivò a un gran prato recinto da una altissima rete metallica. 

Dentro pascolavano tranquille le pecorelle. 
Il lupo girò tutt’attorno per vedere se qualche maglia si fosse allentata nella rete, ma non trovò buchi. 
Scavò con le zampe per fare un buco nella terra e passar sotto la rete, ma ogni fatica fu vana. 
Tentò di saltare la siepe, ma non riusciva neppure ad arrivare a metà. 
Allora si presentò alla porta del recinto e gridò: “Pace! Siamo tutti creature di Dio e dobbiamo vivere secondo le sue leggi!”. 
Le pecorelle si appressarono e allora il lupo disse con voce ispirata: “Viva la legalità! Finisca il regno della violenza! Facciamo una tregua!”. “Bene!”, risposero le pecorelle. “Facciamo una tregua!”. 
Il lupo si accucciò davanti alla porta del recinto e passava il tempo cantando. Ogni tanto si levava e andava a brucare l’erba ai piedi della rete metallica. “Uh! Guarda, guarda!”, si stupirono le pecore. “Mangia l’erba anche lui, come noi! Non ci avevano mai detto che i lupi mangiano l’erba!…”. “Io non sono un lupo!”, rispose il lupo. “Io sono una pecora come voi. Una pecora di un’altra razza”. 
Poi spiegò che le pecore di tutte le razze avrebbero dovuto fare causa comune. “Perché”, disse alla fine, “non fondiamo un Fronte Pecorale Democratico? ("Fronte popolare democratico" era il nome dell'alleanza politico-elettorale ).
Io ci sto volentieri e non pretendo nessun posto di comando. 
È ora che ci uniamo contro chi ci tosa, ci ruba il latte e ci manda al macello!”. “Parla bene!”, osservarono alcune pecore. “Bisogna fare causa comune!”. 
E aderirono al Fronte Pecorale Democratico e, un bel giorno, aprirono le porte. 
Il lupo, diventato capo del piccolo gregge, cominciò, in nome dell’Idea, la epurazione di tutte le pecore antidemocratiche e le prime furono quelle che gli avevano aperto la porta. 
Alla fine l’opera di epurazione terminò, e quando non rimase più neppure una pecora il lupo esclamò trionfante: “Ecco finalmente il popolo tutto unito e concorde! 
Andiamo a democratizzare un altro gregge!”»

(Giovannino Guareschi), 
Fonte: da “Don Camillo e il suo gregge”




…. I  Padri Costituenti sono vissuti in un’epoca di stermini di massa e sapevano bene che per sterminare una persona devi prima allontanarla dal suo lavoro e che, quindi, la perdita del lavoro è il primo degli arbitri tremendi che portano alla distruzione, condizione indispensabile e sufficiente all’annientamento. 

Il primo lockdown, non ha avuto nessun senso dal punto di vista sanitario, anzi ha avuto il senso di peggiorare la salute di tutti, per la reclusione, per l’incuria e per la disperazione. 

Cancro e malattie degenerative  non sono state più curate, in più rinchiudere le persone in casa fa crollare il sistema immunitario che è uno dei due motivi per cui i casi di cancro sono saliti alle stelle, non solo il fatto che non li curavano più. Rinchiudere è uno dei passi verso la distruzione. 

Siamo un popolo che non serve più. È spiegato nel Grande Reset: le linee produttive vanno spostate in Cina. Noi non serviamo più. Ognuno di noi, nel suo blocchetto di plexiglass, con la connessione a Netflix e a YouPorn e magari il reddito di cittadinanza, fino a quando non scompare. Per questo il lavoro è così importante. Per questo è così grave che ce lo stiano togliendo.

Per questo è così grave che non ti lascino lavorare a meno che tu non abbia questa ridicola carta che segnala se hai fatto o no un farmaco che non serve a immunizzare quindi non blocca il contagio di una malattia che sarebbe curabile, segnala solo la tua sottomissione e che hai in corpo qualcosa che altri volevano che tu avessi in corpo. Perché. Perché ci tengono così tanto?

dal blog di Silvana De Mari

https://www.silvanademaricommunity.it/2021/09/18/sorci-di-tuto-il-mondo-uniamoci/


Buona giornata a tutti :-)



mercoledì 28 luglio 2021

Le parole - Eugénio de Andrade

Sono come un cristallo,
le parole.
Alcune, un pugnale,
un incendio.
Altre,
rugiada appena.
Segrete vengono, piene di memoria.
Insicure navigano:
barche o baci,
agitano le acque.
Abbandonate, innocenti,
leggere.
Tessute sono di luce
e sono la notte.
E persino pallide
ricordano ancora verdi paradisi.
Chi le ascolta? Chi
le raccoglie, così,
crudeli, disfatte,
nei loro gusci puri?


- Eugénio de Andrade -


A volte penso che l'amore eterno sia il Babbo natale degli adulti... 
sappiamo tutti che non esiste ma nessuno vuole sentirselo dire... 

- Alessandro Cattelan - 




È impossibile alla parola umana ridire cose che il cuore può appena intuire. 

(Santa Teresa di Lisieux)



"Le parole volano, non si volatilizzano"

"Le parole nascono ma non muoiono. Non muore niente, a questo mondo. 
Le parole nascono e poi, essendo più leggere dell'aria, salgono in su e arrivano fino al punto in cui il cielo finisce e comincia l'eternità. E lì ristanno.
Come se si liberassero in una stanza cento palloncini: arrivati al soffitto si fermerebbero. Così le parole nel cielo.
Lassù ci sono tutte le parole del mondo: dal grido minaccioso di Caino, all'ultimo discorso di Farinacci, alla cantilena dello straccivendolo, al canto dell'innamorato. 
Verba volant. Le parole volano, non si volatilizzano."

- Giovannino Guareschi - 
Lager di Beniaminowo, 1944





Buona giornata a tutti :-)






mercoledì 15 aprile 2020

don Camillo e la pioggia - Guareschi Giovannino


«Pioverà, pioverà, don Camillo» lo rassicurò il Cristo «È sempre piovuto da che mondo è mondo. La macchina è combinata in moto tale che a un bel momento deve piovere. O sei del parere che l'Eterno abbia sbagliato nell'organizzare le cose dell'universo?»

«È gente che avrebbe bisogno di una lezione» disse don Camillo. 
«Mandategli un ciclone che butti all'aria ogni cosa. È diventato un mondo maledetto pieno di odio, di ignoranza e di cattiveria. 


Un diluvio universale ci vuole. Creperemo tutti, e così si farà il conto finale e ognuno si presenterà davanti al tribunale divino e riceverà il castigo o il premio che merita!»

Il Cristo sorrise.
«Don Camillo, per arrivare a questo non occorre un diluvio universale. Ognuno è destinato a morire quando è il suo turno e a presentarsi davanti al tribunale divino per avere il premio o la punizione. Non è la stessa cosa anche senza cataclismi?»
«Anche questo è vero» riconobbe don Camillo tornato calmo.
Poi, siccome, in fondo, gli dispiaceva un po' di rinunciare in pieno all'idea del diluvio, cercò di salvare il salvabile.
«Se almeno poteste far piovere un po'. La campagna è secca, i bacini delle centrali sono vuoti.»
«Pioverà, pioverà, don Camillo» lo rassicurò il Cristo «È sempre piovuto da che mondo è mondo. La macchina è combinata in modo tale che a un bel momento deve piovere. O sei del parere che l'Eterno abbia sbagliato nell'organizzare le cose dell'universo?»
Don Camillo si inchinò.
«Sta bene» disse sospirando. «Capisco perfettamente quando sia giusto quello che Voi dite. Però che un povero prete di campagna non possa neanche permettersi di chiedere al suo Dio di far venir giù due catinelle d'acqua, perdonate, ma è sconfortante.»
Il Cristo si fece serio.
«Hai mille ragioni, don Camillo. Non ti resta che fare anche tu uno sciopero di protesta.»
Don Camillo ci rimase male e si allontanò a capo chino, ma il Cristo lo richiamò.
«Non ti crucciare, don Camillo» sussurrò il Cristo. «Lo so che il vedere uomini che lasciano deperire la grazia di Dio è per te peccato mortale perché sai che io sono sceso da cavallo per raccogliere una briciola di pane. Ma bisogna perdonarli perché non lo fanno per offendere Dio. 

Essi cercano affannosamente la giustizia in terra perché non hanno più fede nella giustizia divina, e ricercano affannosamente i beni della terra perché non hanno fede nella ricompensa divina. E perciò credono soltanto a quello che si tocca e si vede, e le macchine volanti sono per essi gli angeli infernali di questo inferno terreste che essi tentano invano di far diventare un Paradiso. 
È la troppa cultura che porta alla ignoranza, perché se la cultura non è sorretta dalla fede, a un certo punto l'uomo vede soltanto la matematica delle cose. E l'armonia di questa matematica diventa il suo Dio, e dimentica che è Dio che ha creato questa matematica e questa armonia. 

Ma il tuo Dio non è fatto di numeri, don Camillo, e nel cielo del tuo Paradiso volano gli angeli del bene. 
Il progresso fa diventare sempre più piccolo il mondo per gli uomini: un giorno, quando le macchine correranno a cento miglia al minuto, il mondo sembrerà agli uomini microscopico, e allora l'uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo pennone e si affaccerà sull'infinito, e nell'infinito ritroverà Dio e la fede nella vera vita. 
E odierà le macchine che hanno ridotto il mondo a una manciata di numeri e le distruggerà con le sue stesse mani. Ma ci vorrà del tempo ancora, don Camillo. Quindi rassicurati: la tua bicicletta e il tuo motorino non corrono per ora nessun pericolo.»

Il Cristo sorrise, e don Camillo lo ringraziò di averlo messo al mondo.


- Giovanni Guareschi -
  da " Don Camillo"




- Compagno Delegato: Bisogna restare nella legalità e noi vi resteremo, a costo di dover imbracciare il mitra e inchiodare al muro tutti i nemici del popolo.
[Don Camillo gli impedisce di continuare suonando le campane]
- Compagno Delegato: Ma chi è?
- Peppone: È Don Camillo.
- Compagno Delegato: E fatelo tacere.
- Peppone: È una parola, bisognerebbe prendere a cannonate il campanile.
- Brusco: Se continua io direi di sparargli attraverso le finestre della torre.
- Peppone: Già, ma bisognerebbe essere sicuri di farlo fuori al primo colpo se no si mette a sparare anche lui.

Giuseppe "Peppone" Bottazzi (Gino Cervi)
dal film "Don Camillo" di Julien Duvivier



Don Camillo
: Io, vedete, non posso assolutamente sopportare l'inganno. Io avrò molti difetti, Signore, ma non quello di mentire e di turlupinare il prossimo. Questo "Fronte Indipendente" è falso e... 
Gesù: Come il tuo biglietto don Camillo. 
Don Camillo: Il mio biglietto? Quale biglietto? 
Gesù: Il biglietto da cinquemila che hai appioppato a Peppone.
[Don Camillo ha precedentemente acquistato dalle mani di Peppone una copia del giornale Patria Unita, redatto appositamente per la sua campagna elettorale.] 
Don Camillo: L'avevo dimenticato... una distrazione... comunque sia con quei soldi falsi ci ho comprato delle falsità, il conto torna! 
Gesù: Rimarrebbero le 4.975 lire buone che ti ha dato di resto Peppone: quelle dove le metti? 
Don Camillo: Beh, quelle posso anche accettarle come contributo volontario del Fronte Indipendente per le migliorie alla minestra dei poveri vecchi. Naturalmente gli manderò una regolare ricevuta. 
[Si sentono, fuori campo, degli slogan anticlericali del Fronte] 
Don Camillo: Li sentite, Signore? Li sentite? Ma tanto è inutile, non passeranno. Dio non lo permetterà! 
Gesù: E allora sia fatta la volontà di don Camillo. 
Don Camillo: La Vostra, Signore, la Vostra, non la mia.



«Per fare buona politica non c'è bisogno di grandi uomini, ma basta che ci siano persone oneste, che sappiano fare modestamente il loro mestiere. 
Sono necessarie: la buona fede, la serietà e l'impegno morale. 
In politica, la sincerità e la coerenza, che a prima vista possono sembrare ingenuità, finiscono alla lunga con l'essere un buon affare.»

 (Piero Calamandrei)



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domenica 9 dicembre 2018

“Fermati, don Camillo!” - Giovannino Guareschi da: “Mondo Piccolo”

Don Camillo andò a letto e lo svegliarono le donnette che venivano per la Messa mattutina e avevano trovato chiusa la porta della chiesa.

Don Camillo immerse la faccia nel catino pieno d’acqua fredda e scese di corsa.
“E tardi, mi dispiace” spiegò alle donnette raccolte davanti alla porta della canonica. “Non so cosa possa essermi successo. Il campanaro non è tornato, ieri sera: è rimasto bloccato in città dalla neve.”
Il gattino bigio gli si strusciò contro una gamba e don Camillo rabbrividì. Si avviò verso la chiesa, ma in quel momento si udì uno schianto.
“Il tetto della chiesa si sfascia!”


***
II colmo del tetto non era più orizzontale, si era abbassato di mezzo metro verso la parte posteriore. Qualche trave doveva aver ceduto, disse qualcuno, ma si fece avanti il Bigio, il capomastro,che, considerata la faccenda, scosse il capo.
“Non si è spaccato niente” disse. “La trave maestra del colmo poggia, davanti, sul culmine del frontale della chiesa e, dietro, su una capriata. Il peso della neve ha fatto sbracare i puntoni dei due capi del tirante. Adesso i puntoni poggiano (sulla trave del tirante e si sono abbassati per quel tanto che il puntone del culmine è più corto. Fin che i puntoni degli spioventi non si sbracano dal puntone del culmine, non c’è nessun pericolo.”
Era un ragionamento complicato per dire una cosa semplice: ma si udì un nuovo schianto e il colmo del tetto si inabissò.
“Si è spaccata la trave del tirante” disse il Bigio.
“Adesso il peso è tutto sulla volta: se la volta cede, a Messa, stamattina, ci va il tetto.”
Don Camillo, che era rimasto a guardare sgomento, pensò all’altare, al Tabernacolo, al Cristo crocifisso.
“Non fate stupidaggini” gli gridarono. Ma oramai aveva aperto la porta della chiesa ed era entrato.
Ma una voce imperiosa si udì:
“Fermati, don Camillo!”.
E don Camillo ristette un istante sulla porta e, proprio in quell’istante, rovinò la volta e la chiesa si riempì di mattoni, di travi, di tegole e di neve.
Don Camillo trovò tra sé e l’altare una montagna di macerie cementate dalla neve: ma l’altare c’era ancora, intatto, perché la cupola non s’era mossa.
Guardò in alto e vide soltanto la neve scendere dal gran rettangolo di cielo che ora stava al posto del soffitto della sua chiesa.
Don Camillo pensò al gatto nero e non capiva come potesse entrarci il gatto nero con la neve che aveva fatto crollare il tetto.
Tutto il paese venne a vedere quella rovina: don Camillo pareva che anche lui fosse un grosso rottame perché, dopo un’ora, stava ancora immobile a guardare sbalordito il mucchio di macerie. E la neve gli si era ammucchiata sulle spalle e non si poteva capire bene se don Camillo avesse il viso bagnato perché la neve gli si scioglieva sulla faccia o perché piangeva.
A un tratto il suo sguardo, occupato fino a quel momento a considerare nel suo impressionante complesso la montagna di macerie, si concentrò su un particolare del mucchio.
Poi, con un balzo, don Camillo fu sul mucchio e, agguantata una grossa trave, la scosse e la tirò fin che non fu riuscito a cavarla fuori dal groviglio.
La gente si fece avanti.
“È la trave del tirante della capriata” disse il Bigio. “Anzi, è una mezza trave del tirante.”
Poi tacque perplesso: anche un orbo avrebbe visto che la trave del tirante era stata segata nel mezzo. Il taglio era fresco.
La trave non era stata segata tutta: segata per tre quarti. L’altro pezzo era spaccato.
Don Camillo pensò ancora al gatto nero e sentì che il suo occhio, adesso, stava guardando una cosa che egli ancora non vedeva.
Poi vide, nella neve mescolata alle macerie, la cosa.
E allora tutti si buttarono sul mucchio e cominciarono a tirar via roba. Dopo un’ora di lavoro furibondo trovarono l’uomo che aveva macchiato col suo sangue la neve. Vicino a lui era un segaccio
L’uomo giaceva bocconi, morto e stramorto, e aveva la faccia affondata nel calcinaccio. E nessuno ebbe il coraggio di rivoltarlo per vedere chi fosse perché tutti avevano paura di conoscerlo.
Lo voltò il maresciallo dei carabinieri.
Tirarono fuori anche l’altro pezzo della trave e studiarono il taglio.
“Aveva pensato di tagliare tre quarti del tirante e andarsene: poi la neve, aumentando di peso, avrebbe fatto il resto. Non si era accorto che la trave, proprio sotto il taglio, aveva una crepa e così tutto è crollato prima che il tipo si fosse messo in salvo. Probabilmente era una sorpresa che aveva preparato per il Natale.”
Non disse chi era il tipo venuto giù assieme al tetto.
“È uno di via, uno di quelli che lavorano per la pace” si limitò a spiegare.
La sera del 23 dicembre, don Camillo pensava con  immenso sgomento che la sera dopo era la Vigilia: “Dove dirò la Messa di Mezzanotte?”.

***
E venne la sera della Vigilia e la gente si era tutta chiusa in casa perché la Paura ululava dalle macerie della chiesa sepolta nel buio.
Pareva un paese in guerra: ed era davvero un atto di guerra feroce degli uomini contro il loro Dio. E il mostruoso gatto nero galoppava in tutti i campi deserti, tenendo la statuetta di Gesù Bambino tra le zanne.
Cadde sul paese un silenzio orrendo perché era una meravigliosa notte serena e la neve candida e immacolata copriva la terra nera.
Chi avrebbe infranto il cristallo di quell’insopportabile silenzio?
Ed ecco, improvvisamente, si udirono le campane della chiesa e, poco dopo, apparve a una estremità della lunga strada, ai margini della quale erano allineate le case del borgo, una luce inconsueta.
Su un carro pavesato di damasco e trascinato da otto paia di candidi buoi era l’altare sormontato dal grande Cristo Crocifisso. 
E don Camillo celebrava davanti all’altare la Messa.
Ai lati del carro e dietro era il gruppo dei cantori, uomini e donne, con torce fiammeggianti.
La gente si affacciò, scese e, man mano che il Carroccio avanzava, si accodava. II Carroccio percorse lentamente la lunga strada principale, poi si inoltrò nelle strade secondarie e, da ogni aia, la gente usciva e si univa agli altri.
Poi il ritorno e la sosta per l’Elevazione nella piazza gremita.
“Fratelli!” disse don Camillo “la pacifica armata di Cristo, stretta attorno al suo Carroccio, ha vinto stasera la sua battaglia contro la paura.
La casa di Dio è l’universo senza confini e il soffitto è quell’immenso cielo stellato e nessuno potrà farlo crollare.
Non pensate al soffitto della vostra chiesa: guardate quel cielo eterno e infinito e cantate con gioia le lodi del Signore.”
Don Camillo disse questo e altro e, nel cuore della gente, tornò la serenità.
La gente accompagnò il Carroccio fin davanti alla chiesa. Qui qualcuno gridò che bisognava pensare a rimettere a posto tutto e subito, e depose sul piano del Carroccio del denaro.
E tutti passarono davanti al Carroccio e tutti diedero il loro obolo. 

Don Camillo era sceso e appoggiato al carro, guardava sorridendo la sfilata. Fra gli ultimi si presentò un bambino alto due o tre spanne, non arrivava a mettere il suo danaro sul piano del Carroccio. Allora don Camillo lo sollevò.
Era il figlio di Peppone e don Camillo lo guardò con angoscia pensando al gatto nero e mostruoso che teneva tra le fauci il Bambinello.
Rimise giù il ragazzino.
Riportò lui stesso, scavalcando il mucchio di macerie, il Cristo Crocifisso al suo posto, sull’altar maggiore.
“Gesù” disse “l’altra sera, mentre io Vi parlavo, un uomo sul mio capo stava segando la trave. E se Voi non mi aveste detto “Fermati!” io sarei rimasto travolto da quelle macerie.”
“Perché, don Camillo, parli ancora di travi e di soffitti, quando hai detto tu stesso, poco fa, che il vero soffitto della casa di Dio non ha travi e nessuno lo può far crollare?”
Don Camillo guardò in su e vide il grande rettangolo di cielo stellato.
Ma il mostruoso gatto nero non poteva uscire dalla sua mente, e lo vedeva galoppare per i campi deserti e sull’argine in riva al fiume.

- Giovannino Guareschi - 
da:  “Mondo Piccolo”, “Ciao, Don Camillo”, Biblioteca Universale Rizzoli, ed. Bur, pagg. 347-355


Buona giornata a tutti. :-)




mercoledì 7 novembre 2018

Gli uomini non possono fare del male a Dio - da: "Mondo piccolo" di Giovanni Guareschi

Proprio sotto Natale era venuta giù mezza gamba di neve e ancora continuava a fioccare. 
Don Camillo aveva tirato fuori le statuine di legno del `presepio per ritoccarle e, alla mezzanotte del 22, era ancora lì col pennellino a rinfrescare facce, 4, mantelli e dorature, e il gatto gli faceva compagnia.
Era un gatto giovane e giocava con tutta la roba minuta che gli capitava sotto le zampe e, un bel momento, a don Camillo capitò di dar retta a quel che stava combinando sotto la tavola e vide che la bestia stava giocando con la statuina di Gesù Bambino.
Don Camillo gli tirò un urlaccio e il gatto scappò via tenendo la statuina in bocca e don Camillo dovette rincorrerlo e sparargli una ciabatta, a per fargli mollare la presa.
La statuina di Gesù Bambino, don Camillo se la teneva per ultima, per potersela lavorare meglio: così tirò in giù il saliscendi della lampada e, dopo aver brontolato un po’ col gatto, incominciò a pitturare di fino.
A un bel momento la statuina di Gesù Bambino gli scivolò via di mano e cadde per terra e, chinatosi per raccoglierla, don Camillo vide che il maledetto gatto l’aveva ancora presa tra i denti.
Guardando meglio, don Camillo si accorse di una cosa strana: il gatto era un altro. Più grosso, con due occhi che guardavano in un certo modo. II gatto solito era bigio e questo era invece nero. Di dove era venuto quel gatto forestiero?
“Molla” urlò don Camillo e il gatto fece un balzo verso la porta, ma non lasciò andare la statuina.
Don Camillo si riscosse e il gatto nero uscì nel corridoio e, trovata la porta socchiusa, sgusciò via, a coda bassa, ed eccolo nel sagrato, fermo ad aspettare, nero nero in mezzo al gran bianco della neve.
“Maledetto!” urlò don Camillo che fu subito fuori anche lui.
E il gatto nero via con la statuina di Gesù Bambino tra i denti.
E don Camillo dietro al gatto.
Il gatto prese la via dei campi e don Camillo lo seguì ansimando.
Don Camillo stentava a camminare perché la neve era fresca e vi sprofondava dentro fino a mezza gamba: il gatto nero, invece, volava via come se fosse una piuma. Ma ogni tanto si fermava, volgeva il muso indietro e aspettava che don Camillo gli arrivasse a dieci metri per poi riprendere la sua corsa.
Ed ecco il fatto: il gatto nero diventava, a ogni fermata, sempre più grosso, e anche la statuina di legno di Gesù Bambino aumentava in proporzione.
Quando la bestia nera diventò enorme, come un bufalo, la statuina era alta come un bambino vero.
Ed era difatti un bambino vero. Un Gesù Bambino di carne rosea e viva. 

Un Gesù Bambino che sanguinava e gemeva tra le zanne della belva nera e mostruosa. 
Don Camillo lanciò un urlo di terrore e si trovò davanti alla sua tavola, con la statuina di Gesù Bambino in una mano e il pennellino nell’altra.
Il gatto, il solito gattino bigio, stava ronfando sotto il camino. Erano già le quattro del mattino e continuava a fioccare.
Don Camillo andò a dare un’occhiata in chiesa.
“Gesù” disse don Camillo inginocchiandosi davanti al Cristo Crocifisso dell’altar maggiore “ho fatto uno strano sogno.” E raccontò il sogno del gatto nero che diventava un enorme mostro e della statuina che diventava Gesù Bambino vero, sanguinante e gemente tra le zanne della belva.
“Gesù” concluse don Camillo “quel sogno mi ha turbato.”
Il Cristo sorrise: “Don Camillo: non è il sogno che ti ha turbato.Ti turba il pensiero che ha originato quel sogno.
È un pensiero che tu hai dentro di te, ed è il prodotto di un ragionamento. Tu, sotto la specie dell’apologo, hai spiegato in sogno a te stesso la sostanza del tuo pensiero”.
“Gesù” esclamò don Camillo “io intendo quel sogno come un presagio, un avvertimento soprannaturale.”
“Non è un presagio, don Camillo: non è un avvertimento, una voce che viene dal di fuori. È una voce che viene dal tuo stesso ragionamento. È la voce della tua paura.”
Don Camillo allargò le braccia: “Gesù, io non ho paura! “.
“Sì, don Camillo: tu hai paura.
Ma non per te. Hai paura per me.
Hai paura che gli uomini possano fare del male a Dio.
Si può negare il sole, si può perseguitare chi afferma l’esistenza del sole. Si può fare in modo che nessuno più veda il sole strappando gli occhi a tutte le creature, ma non si potrà per questo spegnere o soltanto offuscare mai la luce del sole.
Gli uomini non possono che fare male a se stessi.
Non possono fare del male a Dio.
Ma io non ti rimprovero per questa tua paura, perché essa non è che l’immenso amore che tu hai per me.”
- Giovanni Guareschi - 
da: " Mondo piccolo" Biblioteca Universale Rizzoli, ed. Bur, pagg. 347-348 




Non per me
Ti prego
ma per chi non prega mai
e per chi vorrebbe ma non osa.

Non per me
domando forza
ma per chi non ce la fa nemmeno a domandare.

Non per me
invoco protezione
ma per chi, funambolo dell'esistenza,
barcolla sul baratro della disperazione.

Non per me
ma per gli altri è oggi la mia preghiera.


- Patrizio Righero -



Buona giornata a tutti. :-)





venerdì 2 dicembre 2016

La favoletta di Don Camillo - Giovannino Guareschi


Don Camillo raccontò questa favoletta:
«Un feroce lupo pieno di fame girava per la campagna e arrivò a un gran prato recinto da una altissima rete metallica. Dentro pascolavano tranquille le pecorelle. Il lupo girò tutt’attorno per vedere se qualche maglia si fosse allentata nella rete, ma non trovò buchi.
Scavò con le zampe per fare un buco nella terra e passar sotto la rete, ma ogni fatica fu vana. Tentò di saltare la siepe, ma non riusciva neppure ad arrivare a metà. Allora si presentò alla porta del recinto e gridò: “Pace! Siamo tutti creature di Dio e dobbiamo vivere secondo le sue leggi!”.
Le pecorelle si appressarono e allora il lupo disse con voce ispirata: “Viva la legalità! Finisca il regno della violenza! Facciamo una tregua!”. “Bene!”, risposero le pecorelle. “Facciamo una tregua!”.
Il lupo si accucciò davanti alla porta del recinto e passava il tempo cantando. Ogni tanto si levava e andava a brucare l’erba ai piedi della rete metallica. “Uh! Guarda, guarda!”, si stupirono le pecore. “Mangia l’erba anche lui, come noi! Non ci avevano mai detto che i lupi mangiano l’erba!…”.
“Io non sono un lupo!”, rispose il lupo. “Io sono una pecora come voi. Una pecora di un’altra razza”. Poi spiegò che le pecore di tutte le razze avrebbero dovuto fare causa comune.
“Perché”, disse alla fine, “non fondiamo un Fronte Pecorale Democratico? Io ci sto volentieri e non pretendo nessun posto di comando. È ora che ci uniamo contro chi ci tosa, ci ruba il latte e ci manda al macello!”.
“Parla bene!”, osservarono alcune pecore. “Bisogna fare causa comune!”.
E aderirono al Fronte Pecorale Democratico e, un bel giorno, aprirono le porte.
Il lupo, diventato capo del piccolo gregge, cominciò, in nome dell’Idea, la epurazione di tutte le pecore antidemocratiche e le prime furono quelle che gli avevano aperto la porta.
Alla fine l’opera di epurazione terminò, e quando non rimase più neppure una pecora il lupo esclamò trionfante: “Ecco finalmente il popolo tutto unito e concorde! Andiamo a democratizzare un altro gregge!”»

- Giovannino Guareschi -
Fonte: da “Don Camillo e il suo gregge”


Non si può vaticinare niente in forma compiuta. 
Nessuno è in grado di vedere in modo preciso, ma quello che si può dire è che l'avventura umana non può durare all'infinito. 
Per l'uomo la catastrofe deriva dal fatto che non può rimanere solo. Non c'è persona che possa rimanere sola con se stessa. 
Oggi tutti quelli che dovrebbero vivere con se stessi si affrettano ad accendere il televisore o la radio. 
Io credo che se un governo sopprimesse la televisione, gli uomini si ammazzerebbero gli uni con gli altri per la strada, perché il silenzio li terrorizzerebbe. 
In un lontano passato, le persone rimanevano molto più in contatto con se stesse, per giorni, per mesi, ma oggi non è più possibile. 
Perciò si può dire che la catastrofe si sia già verificata, il che significa che noi viviamo in modo catastrofico.

- Emil Cioran - 
da: "Un apolide metafisico" 



«Ma prima o poi ci sarà una nuova generazione di giovani che svegliandosi dal torpore, nel quale il potere li ha intrappolati, rovisteranno nelle soffitte impolverate dei loro genitori e troveranno uno zaino e un sacco a pelo e a questo punto andranno “lungo la strada” a riprendere il cammino interrotto».

- Jack Kerouac -




Buona giornata a tutti. :-)

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